Le nuvole sono indubbiamente una delle caratteristiche principali del tempo: la loro assenza garantisce inevitabilmente tempo bello e soleggiato, mentre nelle occasioni in cui si presentano sempre più numerose e scure ci annunciano l’imminente arrivo della pioggia. Insomma le nubi rappresentano l’essenza stessa del tempo atmosferico e anche per questo la Meteorologia, fin dagli albori, ne ha studiato caratteristiche e comportamento. Ma da dove arrivano i nomi utilizzati per catalogarli? In molti casi bisogna andare indietro nel tempo di qualche secolo: vediamo perchè!
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Una lingua antica per le nuvole
Nel passato la necessità di creare una valida classificazione dei vari tipi di nuvola ha coinvolto numerosi scienziati. Già nel alla fine del XVIII il biologo Jean-Baptiste Lamark, celebre autore sull’ereditarietà dei caratteri acquisiti, propose una prima classificazione delle nubi basata sul loro aspetto. Tuttavia, grazie all’utilizzo di una lingua universale come il latino, ebbe molto più successo la classificazione proposta, agli inizi del XIX secolo, da uno studioso assai meno celebre. Durante una conferenza presso la Askesian Society, circolo culturale scientifico di Londra, il chimico inglese Luke Howard, di mestiere farmacista ma grande appassionato di meteorologia, propose difatti la suddivisione delle nubi in 3 grandi gruppi, a ciascuno dei quali assegnò nomi di origine latina: Cirrus, Stratus e Cumulus. Spinto anche dal vasto consenso ottenuto, nel 1803 egli pubblicò un volume, Essay on the Modification of Clouds, che riscosse grande successo e impose, per sempre, la sua classificazione delle nubi.
Un atlante per le nuvole
Per descrivere in modo più preciso i vari tipi di nube nei decenni successivi altri studiosi proposero la definizione di gruppi intermedi: in particolare nel 1840 il tedesco Kaemtz introdusse il tipo di nuvola detto Strato-Cumulus, e nel 1855 Renou ne distinse altri quattro, ovvero Cirro-Cumulus, Cirro-Stratus, Alto-Cumulus e Alto-Stratus. Nel 1887 invece Hilderbrandsson e Abercromby proposero la distinzione delle nubi in base alla quota della loro formazione anziché alla forma: suddivisero quindi tutte le nuvole in tre grandi raggruppamenti, nuvole basse (che viaggiano molto vicine al suolo, al di sotto di 2500 metri di altitudini), nuvole medie (che si formano a quote intermedie, fra 2500 e 5000 metri) e nuvole alte (quelle che viaggiano a più di 5000 metri di quota). Anche se non è mai riuscita a soppiantare quella originaria ideata da Howard, tutt’oggi la classificazione di Hilderbrandsson e Abercromby accompagna quella basata sulla morfologia delle nubi.
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Con l’avvento del XX secolo e l’istituzione di organismi internazionali, iniziò il tentativo di dare una definizione universalmente riconosciuta delle nubi. Così nel 1921 l’Organizzazione Meteorologica Internazionale decise di redigere un’edizione ufficiale dell’Atlante delle Nubi: il lavoro durò 11 anni e nel 1932 venne pubblicato a cura del servizio meteorologico francese. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l’edizione però oramai esaurita e in alcuni punti obsoleta per l’adozione di nuovi codici meteorologici decisa a Washington nel 1947, un altro comitato coordinato da Viaut, direttore del Sevizio Meteorologico Francese, riscrisse l’Atlante, mantenendo comunque nella sostanza la nomenclatura originaria: così nel 1957, a ben 10 anni di distanza dalle decisioni di Washington, l’ultima edizione dell’Atlante vide la luce. Dal ripetersi di tante edizioni sempre modificate e dal tempo impiegato nella redazione di esse si può intuire quanto difficile e complessa sia stata l’opera.
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Fonte: MeteoGiuliacci.it
Autore:
Mario Giuliacci